Terrone D.O.C.

Ricercando le nobilissime radici della civiltà meridionale

Terrone D.O.C.

ACQUISTA ACQUISTA IN FORMATO KINDLE

L’autore, essendo nato a Sud del fiume Ombrone ‒ il corso d’acqua toscano che fissa la linea di demarcazione immaginaria (o reale?) tra le popolazioni polentone e quelle terrone ‒ è quindi un terrone. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in un luogo dove la gente vedeva le sirene a mare, i folletti e gli gnomi nei boschi, gli angeli e i diavoli per i sentieri di montagna, dialogava a tu per tu con i santi. Era un popolo che non possedendo nulla di materiale a cui aggrapparsi, si attaccava con amore feroce ai sogni, e di quelli viveva. Temendo perciò che il Moloch della civiltà promossa dai neo-polentoni della finanza globale fagociti del tutto i personaggi, gli oggetti, le aure e i sentimenti propri del mondo nel quale maturò la sua anima meridionale, ha pensato bene di costruirvi intorno un’arca di parole e ricordi per conservarli. Questo libro è quell’arca, e l’autore si augura che, terminato il diluvio di relativismo e adorazione della materialità, gli italiani, polentoni o terroni che siano, ritrovino intatti all’interno di essa quei valori che erano e rimarranno i segni insostituibili della loro antica civiltà.

Premessa
Lo sbarco
Coppole e cappelli
Il caffè
Chi ha avuto ha avuto
Il lavoro
Antiche follie
Invito a corte
La medicina
La cultura
La religione
Gil animali
L’avventura
L’amore
Fiori d’arancio
Il business
La tecnologia
Vizi e sfizi
La politica
La morte
Conclusione e auspicio

PREMESSA

Il sogno inconfessato degli svizzeri è che un bel mattino, svegliandosi, si accorgano che un tremendo cataclisma ha fatto sprofondare tutta la penisola italiana e che ormai città lacuali come Lugano e Ginevra, invece di affacciarsi sulle acque degli omonimi laghi, si affacciano sulle rive del Mediterraneo.

Stesso sogno segreto nutrono lombardi, veneti e piemontesi, solo che la linea di demarcazione della catastrofe si arresta lungo il Po, per cui Mantova, Verona, Milano, Cremona, Alessandria, Torino e Novara sono diventate città marinare invece di essere immerse nelle brume della Valle Padana. Naturalmente, se glielo chiedete, vi diranno che è una calunnia o una malignità gratuita, ma io credo che sia la verità sacrosanta. Spostandoci più a sud troviamo i toscani. Questo popolo eclettico ha coniato un detto “l’Italia finisce all’Ombrone”. I toscani, però, a differenza di lombardi, veneti e piemontesi, non fanno mistero della loro albagia e affermano senza ombra di dubbio che il genio in tutti i campi è appannaggio loro, e che tutti gli altri popoli, nordici compresi, non sono che barbari orecchianti. Del resto anche tra loro, tra toscani, praticano un razzismo di campanile che rasenta l’odio.

Tutti questi popoli a nord del fiume Ombrone, per dirla coi toscani, vengono definiti polentoni, in quanto si presume mangino polenta, ma in senso lato il termine indica un tipo di persona attiva e bonaria, positiva e ottimista, svelta di gesti e di acume, affidabile e funzionale. Ad essi vengono contrapposti in maniera speculare i terroni, tutti quei popoli che vivono, o sopravvivono, a sud del fiume in oggetto. La parola stessa indica la loro natura: sono bassi, proni verso la terra nella quale vivono immersi, quasi radicati. Sono in genere ottusi o furbi, ma mai intelligenti, tortuosi nel pensare e nell’esprimersi, impacciati e grezzi. In alcuni casi sono anche un po’ ladri, infidi ed effimeri. In loro è latente la contaminazione araba e levantina, mentre nei polentoni la consanguineità coi popoli sassoni e teutonici genera appunto quelle virtù mentali e morali che ne fanno una razza eletta.

È diversa quindi anche la civiltà delle due etnie. Quella dei terroni non è in realtà una civiltà, piuttosto un folklore, e se qualche volta un terrone si è reso protagonista di qualche impresa, si è trattato quasi sempre di un plagiatore di gesta già compiute in precedenza da un polentone o da questi ispirate. Tale concetto viene applicato massicciamente dai popoli nordici nei confronti di quelli meridionali. Ecco quindi che Cristoforo Colombo non è stato il primo ad andare in America: prima di lui c’erano andati i Vichinghi, oppure un gruppo di monaci irlandesi guidati dal Santo Brendano. Il telefono non lo ha inventato Meucci ma Bell, la radio non Marco, ma Hertz. E via di questo passo. Ci sono popoli, in particolare quello tedesco, i quali non hanno altro scopo nella vita se non quello di provare che i latini non hanno meriti nello sviluppo della civiltà occidentale e che tutto quanto vi è di meritorio è in qualche modo collegato alla loro presenza. Non sono ancora arrivati a supporre che Cesare fosse nato a Francoforte e che Socrate avesse studiato a Basilea, ma col tempo ci riusciranno.

Quanto ai polentoni italiani, nel secolo e passa che è durata questa pseudo unità nazionale, sono riusciti a privilegiare a tal punto la loro civiltà rispetto a quella dei terroni, che questi sono ormai considerati dei veri paria e parassiti, che vivono a rimorchio del loro costume e della loro civiltà.

Ed a questo punto occorre fare un distinguo su quello che si intende per civiltà. Se per civiltà intendiamo avere il frigo e le autostrade, l’aereo e il computer, ebbene, allora la civiltà è senza dubbio appannaggio dei polentoni. Ma se per civiltà vogliamo intendere una qualità della vita, la serenità dei rapporti umani, l’allegria del vivere e l’armonia dei gesti e delle parole, allora occorre affermare che la civiltà non è quella che viviamo adesso in un mondo polentonizzato, bensì quella che si viveva in altri tempi, quando il nostro esistere era ruspante ma vero, improvvisato ma genuino.

Questo tentativo di annullare i costumi dei terroni da parte dei polentoni è presente nella storia mondiale da sempre. I colonizzatori, di qualunque razza o specie fossero, avevano un solo scopo: provare che la loro civiltà era superiore a quella dei colonizzati e tentare con tutti i mezzi di imporla come la unica e vera, la sola possibile. Ci hanno provato gli inglesi in India, i belgi in Congo, i francesi un po’ dappertutto, e i piemontesi ci hanno provato in Italia. Nel giro di un secolo, hanno stabilito che i santi polentoni erano veri e quelli terroni un po’ meno, anzi spesso erano millantati; gli esploratori erano solo veneti o genovesi, i medici e gli inventori che contavano solo del nord, gli eroi pure quelli, per non parlare dei padri della patria. E così ci troviamo oggi ad avere un pantheon nazionale dove i grandi uomini che contano sono al 90% polentoni mentre il rimanente 10% va guardato con sospetto.

Ma le responsabilità di questo genocidio non vanno attribuite soltanto ai polentoni, molte, e forse le più gravi, sono a carico proprio dei terroni. Loro è infatti la colpa di non aver capito che erano portatori di una civiltà altrettanto valida quanto quella lombarda o svizzera o tedesca o inglese. Non si sono opposti ai tentativi di colonizzazione e col tempo hanno abdicato del tutto al loro costume e alle loro virtù sociali ed umane. E poiché, se le cose vanno avanti così, verrà cancellato anche il ricordo di quella civiltà, è bene che fissiamo sulla carta, e non solo nell’esercizio orale favolistico, i termini di quei valori. Che erano solo diversi, ma non inferiori. Una civiltà terrona è esistita, era vitale e forte. Queste sono le prove. Servono ai nostri figli che non sanno chi siamo, ai nostri compatrioti che non ci capiscono, agli stranieri che ci vedono solo nello stereotipo immortalato dai film di mafia.

Prima di iniziare questo lavoro di testimonianza della civiltà terrona, occorre fare mente locale sulla geografia dove essa si è sviluppata. In senso generale, sono terroni tutti quei popoli e razze che in un modo o nell’altro, in aree terrestri anche molto distanti tra loro e in condizioni ambientali spesso opposte, subiscono lo stesso destino dei meridionali in Italia. Ci riferiamo agli scozzesi, agli irlandesi, ai bavaresi, e alle altre etnie del mondo le quali, benché dislocate in una latitudine settentrionale, patiscono le stesse discriminazioni di razza inferiore e disorganizzata. Occorre anche dire che negli ultimi decenni il petrolio ha portato ricchezza a popoli che prima erano poveri e diseredati (vedi Golfo Persico, Venezuela, Libia, Algeria, Nigeria ecc.), facendoli passare in maniera traumatica dallo stato di terroni a quello di polentoni extra. In Italia si sta verificando lo stesso per i siciliani e per i sardi. Petrolio, traffici e turismo chic hanno trasferito queste regioni dalla condizione terrona a quella polentona, non si sa ancora con quali conseguenze. Escludendo quindi le regioni a nord dell’Ombrone e quelle baciate dalla fortuna, ne restano di veramente terrone solo una manciata. Ma anche tra gli individui di queste regioni sfortunate, terremotate e ricattate, c’è una ulteriore divisione da fare. Per motivi umani e cromosomici, anche nelle zone tipicamente terrone esistono dei microclimi sociali dove vivono polentoni e terroni locali. Sono i vasi di ferro e i vasi di coccio di memoria manzoniana. I fatti che andiamo a narrare si riferiscono alla categoria dei terroni super, extra, i terroni dei terroni, che noi, in ossequio alla classificazione merceologica dei vini oggi tanto adottata, chiameremo: terroni D.O.C.

IL CAFFÈ

Insieme alla saponetta arrivò il caffè liofilizzato. Bastava scaldare un po’ d’acqua sul fuoco, versarci dentro uno o due cucchiaini della polvere marrone che usciva dalle scatolette sotto vuoto e il caffè era fatto. Oddio, un caffè per modo di dire. L’entusiasmo per quella novità durò poco. Perché se c’è una cosa alla quale i terroni non abdicheranno mai, almeno si spera, quella è il caffè tostato, macinato e fatto a modo loro. Vero è che nella colonizzazione polentona del sud anche il caffè ha subìto una certa violenza, una accelerazione nelle fasi di confezione che ne ha snaturato il rito.
Nel valutare le differenze tra la vita terrona di allora e quella consumistico-polentona di oggi, la ritualità gioca un ruolo importante. Quando mostrano alla TV o nelle pellicole cinematografiche scene di vita orientale, giapponese in particolare, restiamo affascinati dal rituale della cerimonia del tè. Si vedono donne in kimono di seta e pettinoni tra i capelli neri lisci come setole, preparare con bricchetti e tazzine la magica bevanda che poi viene servita con gesti lenti e collaudati a gentiluomini accovacciati sul pavimento. Benché in realtà si tratti soltanto di foglioline di una pianticella comunissima immerse in acqua calda e lì fatte infondere per qualche minuto, la cerimonia assume un carattere quasi iniziatico per la cornice particolare in cui viene eseguita, per i costumi appariscenti, la ieraticità e sacralità di gesti altrimenti banali. E anche quando alla fine uomini e donne bevono quel tè, sembra che alle labbra accostino la coppa di Ganimede, colma di nettare e ambrosia. Questione di coreografia. Che dire, allora, del rituale del caffè come veniva compiuto nelle case terrone fino a qualche anno fa? Peccato che il procedimento non sia stato mai filmato o riportato nella interezza delle sue fasi. Essendo un costume del sud, non meritava gli onori della letteratura o della cinepresa. Vero è che in qualche film o pièce teatrale si è fatto cenno alla preparazione del caffè nella sua fase terminale, quando dalla caffettiera veniva travasato nella tazzina per la degustazione. Ma il rituale del caffè per come lo ricordo io era un’altra cosa.
L’operazione vera e propria partiva da lontano, nella bottega del droghiere, che poi non era solo droghiere, ma vendeva anche i botti per le feste, il verderame per l’agricoltura, e infine, tra altre derrate alimentari, anche il caffè. Solo donne abili potevano avvicinarsi al materiale grezzo, vale a dire ai chicchi non tostati, e sceglierli. Mancava poco che usassero la lente da esperto di diamanti. Ma l’esame dei chicchi era condotto con la stessa meticolosità e sospetto. Veniva vagliata la forma, che doveva essere ovale allungata e mai tonda. Il solco centrale doveva essere profondo e netto e la superficie del chicco non doveva presentare bozzi né fessure. E infine la fragranza che doveva essere acre, sottile e non in sospetto di muffa o di stantìo. Un buon chicco doveva alloggiare in barattoli di vetro, in luogo aerato e fresco, e servito con apposita palettina concava in carta oleata. A quei tempi il sistema di paraffinare i chicchi non esisteva ancora, anche perché la tostatura avveniva in ambiente domestico. Ci si teneva allora a che il cibo non venisse manipolato da mani estranee, se possibile. Si evitava così che il formaggio venisse prodotto con manici di ombrello, il salame con unghie di asino e roba del genere. Le uniche frodi erano l’allungamento del vino con acqua e la cottura del pane più breve del richiesto. Tanto che nelle nenie di Capodanno ai fornai che cuocevano poco il pane venivano augurate pene corporali esemplari. Chissà perché solo ai fornai. Non bisogna credere che i poveri, in quanto tali, non siano inclini alla ricercatezza. Il ricco si dimostrerà difficile nello scegliere il caviale e lo champagne, ma egualmente il terrone diseredato si dimostrerà esigente nella scelta delle acciughe da friggere oppure, come si diceva, nella selezione dei chicchi di caffè dal droghiere.
Allora, il caffè veniva scelto, pesato, incartato. I chicchi che schizzavano via dal piattino della bilancia o dall’involucro di carta oleata mentre il commesso l’arrotolava, erano preda dei bambini. Li succhiavano come caramelle, per cui l’abitudine alla droga caffè iniziava in tenerissima età. Arrivata a casa, la donna, madre, moglie o sorella che fosse (il rito doveva essere officiato da personaggi femminili) metteva mano all’opera. Ecco quindi tirar fuori dalla credenza, o dalle panoplie di pentole ai muri della cucina, gli attrezzi necessari. La prima fase consisteva nella tostatura. Esistevano dei marchingegni per l’uopo. Uno era il cilindro a manovella: un lungo tubo di ferro nero poggiato sopra un cavalletto per mezzo di due perni rotanti alle estremità. Sulla fiancata del cilindro, che somigliava vagamente alle betoniere girevoli che vediamo nei cantieri edili oggi, era ricavata una finestrella che si apriva e si chiudeva con un chiavistello ad aggancio. A una delle estremità era sistemata la manovella di ferro col manico di legno chiaro. L’aggeggio veniva posto a cavalcioni della fornace, dove in precedenza si erano fatti ardere i carboni e dove ora covava solo brace viva Guai a porre il cilindro sulla fiamma: si correva il rischio di mandare tutto in fumo, come si dice. Appena il cilindro a contatto con la brace si era scaldato, dalla finestrella si faceva passare il caffè, a cucchiaiate lente e graduali. Nessun gesto doveva avere carattere di esagitazione o approssimazione. Una sincronia perfetta da lancio spaziale ispirava tutta la complessa operazione. Richiusa la finestra, il cilindro veniva fatto ruotare. E qui non è facile descrivere il modo come la manovella doveva essere azionata. Delicatamente e costantemente, senza pause né accelerazioni. Mai quindi essere preda di emozioni, ansie o urgenze gastroenteriche. Se è vero che una buona insalata deve essere mischiata da un pazzo o da un’innamorata, è pur certo che per ottenere la giusta tostatura del caffè di una volta tutte le passioni e i pensieri dovevano essere accantonati. Il caffè veniva prima di tutto, come il fuoco di Vesta. Lenta, solenne, cadenzata ruotava la manovella e con essa il cilindro, all’interno del quale i chicchi, da materia vegetale informe e senza anima, diventavano piano piano ingredienti per un elisir divino. Esisteva una tonalità ottimale per indicare la giusta tosatura: color tonaca di frate, intendendosi per frati solo quelli dell’ordine francescano dei Cappuccini e non, per carità, dei Domenicani, che avrebbe invece segnalato una tostatura errata per eccesso.
A quel punto, i chicchi venivano estratti dal cilindro e messi sopra una tavola di marmo, maiolica o legno perché si raffreddassero. Durante questa fase, con un cucchiaio di legno o una spatola sempre di legno, i chicchi venivano rimossi, rivoltati con delicatezza in circolo, prima in senso orario e poi all’inverso. Finché il loro grado di calore non scendeva a zero. Si passava allora alla fase numero due, che consisteva nella macinazione. Oggi purtroppo la tostatura del caffè subisce un trattamento supplementare che consiste nella paraffinatura dei chicchi. Vale a dire che li si imbelletta per farli apparire più pimpanti. Questa è l’epoca dell’apparenza e non della sostanza, per cui conta più il brilluccicare dei chicchi che la loro colorazione. La tonaca di frate è diventata proprio tonaca di frate domenicano, con tutte le implicazioni che il richiamo a quest’ordine religioso contiene, confrontato alla semplicità dell’altro, quello dei Cappuccini.
Ma stavamo parlando della macinazione del caffè. C’erano tanti tipi di macinini: alcuni erano semplici, altri monumentali, altri complicati ed eccentrici. Tutti però dovevano svolgere la loro funzione in modo impeccabile. I chicchi dovevano uscire dal cassettino in basso ben polverizzati, né poco né troppo. La mano doveva saggiare la farina scura che cadeva dalla macina a spirale, e nel caso rimetterla in ciclo finché non raggiungeva l’optimum. La mistura ottenuta veniva lasciata riposare in un barattolo di vetro, o, mancando il vetro, che fu un’acquisizione di anni più tardi, in cassettine di legno o ceramica. Il resto sul caffè tutti lo conoscono dai luoghi comuni della tradizione terrona: caffettiera a due livelli, ribaltamento dopo la bollitura, cappuccetto di carta per non lasciar sfuggire l’aroma. Fino alla degustazione, che era l’atto sublime, l’apoteosi. Ogni donna aveva poi le variazioni sul tema nelle varie fasi, dalla tostatura alla cottura. Ma erano per lo più trucchi e segreti che mai avrebbero svelato. Mia zia, ad esempio, metteva una buccia di limone nello zucchero in fondo alla tazzina perché macerasse. Quando la bevanda bollente veniva versata, scioglieva aromi preziosi dalla mistura, arricchendone il gusto e personalizzandolo. C’era chi metteva il pepe, chi la cannella, o altre trovate del genere. E quando si formava il circolo degli adepti alla sacra bevanda per la degustazione, devo ammettere che non c’era e non ci sarà mai cerimonia del tè che tenga. Nei riti orientali manca quel pizzico di allegria e di stravaganza che non guasta nelle azioni umane, ridimensionandole fino alla misura che loro compete, e che di sacro hanno solo la bontà degli ingredienti e l’amicizia dei partecipanti alla cerimonia.
Oggi il caffè non è più un rito. Lo beviamo in bar affollati, estratto da macchine che richiedono il minimo intervento umano, ed è, per il nostro umore, un pugno più che una carezza. Lo vogliamo lungo, corto, ristretto, corretto, decaffeinato, col latte. Serve per tenerci su, non per rallegrarci. A casa c’è la moka e le miscele sottovuoto che sono di volta in volta oro, rosse, di montagna, di collina, di pianura. Ognuno lo beve da solo, a modo suo. Non è più la bevanda di una volta, perché anche noi non siamo più gli stessi. Probabilmente siamo tutti intossicati da questi caffè strani, tostati in stabilimenti anonimi, senza amore e di corsa, come di corsa è tutta la nostra vita. E sono intossicati i nostri rapporti, che si svolgono all’insegna della nevrastenia, non da caffè, ma da mancanza di ritualità e sacralità dei gesti, delle parole e dei sentimenti.