Recensioni – Nel nome della Madre

Rinascita

NEL NOME DELLA MADRE

Un “finto-noir” di Fulvio Di Lieto che attrae per i suoi intriganti misteri
incastonati nella “pietra nera” indicata come “risolutrice” dai Libri Sibillini

 

di Daniele Lembo

Da «Rinascita» del 24 luglio 2012

 

A Roma, nel 204 a.C., scoppiò una tremenda pestilenza. Vennero consultati i Libri Sibillini, il cui responso fu però assai diverso da quanto i Romani si aspettassero. Non si trattava di chiedere l’aiuto delle divinità locali come Flora, Bona Dea, Cerere o Pale. Le guerre combattute contro Annibale avevano portato offesa con le loro stragi e distruzioni alla Madre Terra, ne avevano dissacrato l’anima, ed era quindi a lei, alla Grande Madre, che i Romani dovevano ricorrere per avere aiuto e vincere così il morbo. Occorreva, questo il responso, far venire a Roma da Pessinunte, in Frigia, una reliquia di Cibele. Il dettato dei Libri venne esaudito. La Magna Mater, nel segno di una pietra nera, raggiunse Roma e la pestilenza cessò. La Dea ebbe da allora culto ufficiale di Stato a Roma, con uno splendido tempio sul Palatino, il colle nobile, quello su cui era sorta la città quadrata. La Pietra Nera, venne incastonata in un blocco di marmo frigio, un parallelepipedo candido come la neve che fungeva da ganga alla sacra reliquia, scura gemma carica di mistero, con un potente carisma salvifico. Sotto Augusto, il tempio subì un incendio, ma venne subito ricostruito. La Pietra e il suo supporto vennero alloggiati nella cripta del nuovo santuario. Passarono i secoli e la gloria sontuosa si trasformò in rovina negletta, ma sempre utile per animare altre glorie, magari meno nobili e generose. I Farnese divennero padroni del Palatino e ne trasformarono la sommità in giardini di delizie, con fontane, alberature, labirinti, gazebo di frescura. Scavando per le opere di sistemazione del parco, ecco venir fuori il grosso blocco di marmo con dentro quella strana inclusione nera. Che venne subito rimossa e utilizzata come semplice elemento decorativo spurio. A Roma era appena arrivato da Firenze un giovane scultore che prometteva bene, Michelangelo Buonarroti. E visto che il cardinale de Bilhères, amico di casa Farnese, stava progettando un gruppo marmoreo della Pietà, gli venne offerto il parallelepipedo della Grande Madre Cibele a un prezzo molto inferiore a quello che sarebbe costato l’equivalente in marmo di Carrara, senza contare le spese di trasporto e la qualità del marmo. Quella del castone della Pietra Nera era di una qualità rarissima e poi correvano voci che avesse proprietà magiche. Si trattava di leggende, ovviamente, ma l’occasione era ghiotta e il cardinale de Bilheres la colse al volo. Ed ecco nascere la Pietà che è in San Pietro, opera giovanile del genio fiorentino, una giovane Madre non afflitta ma serena che regge in grembo il divino Figliolo morto in croce. Dopo anni, chi si ricorda più della vera origine del marmo col quale Michelangelo aveva scolpito la Vergine? E la Pietra Nera, che fine ha fatto? E del resto, a chi potrebbe importare saperlo? E con quale vantaggio in termini pratici?

Monsignor Raniero Fanelli, Direttore della POM, Pontificia Opera Missionaria, non solo conosce la vicenda del marmo, ma grazie alle sue frequentazione degli archivi vaticani sa dove è finita la Pietra Nera e quali poteri essa è in grado di sviluppare se riunita al supporto, un tempo altare del santuario sul Palatino e ora immagine di una divinità, derivata dagli stessi misteri, ma adibita a un culto diverso. Monsignore è un figlio del Tombolo, ossia di un soldato americano nero dell’occupazione alleata, e di una donna toscana. Cova rancori che stempera con una smisurata ambizione. Mira al soglio pontificio, e per la sua condizione di anagrafe è in contatto con un’organizzazione irredentista nera dei Caraibi, con sede ad Haiti. La dirige il professore Didier Lagrève, raffinato e colto intellettuale, ma soprattutto grande oungan, sacerdote di alto livello del culto vudù. Sua nipote Antinea è predestinata a essere mamaloa, mediatrice tra la divinità e gli adepti del culto caraibico. È nata albina, una rarità genetica che presso gli africani è considerata una vera e propria unzione per ricoprire il ruolo di grande officiante del rito. Il professore Lagrève è in contatto con il senatore nero americano Winston Grey, detto Sunset. Hanno un progetto: costituire una repubblica nera ai Caraibi per offrire ai neri sia americani sia delle isole di avere finalmente uno stato totalmente loro. Lagrève e Sunset fanno inoltre parte di una confraternita di Cabiri, gli antichi sacerdoti di Cibele. Con l’appoggio interno al Vaticano di Monsignor Fanelli contano di attirare l’attenzione del mondo sulla condizione dei neri di Haiti, penalizzati da un colonialismo ottuso e in più afflitti dal terremoto e dalle epidemie. Per farlo, progettano un’azione clamorosa, la più eclatante possibile: sequestrare la Pietà, dopo aver rubato la Pietra Nera dall’antiquarium del Celio, riunire le due reliquie e trasportarle con un rocambolesco viaggio per mare ad Haiti e qui operare il grande vudù con l’aiuto delle virtù magiche di Antinea, salvando quindi Haiti, sia raccogliendo consensi per la mai risolta causa delle popolazioni vittime del colonialismo senza carità e coscienza umana, sia per dare vita alla Repubblica Nera dei Caraibi, ossia alla comunità governata dai Cabiri e ispirata dalla Grande Madre, non più la condiscendente e remissiva Vergine ma una Regina turrita e trionfante sul Male.

Come tutti i progetti troppo ambiziosi però, e dai meccanismi complicati, l’alea dell’imprevisto è sempre in agguato, con il granello, la pietruzza, l’insignificante chiodino che s’infila negli ingranaggi e ne provoca lo scompiglio, vanificando le morbose ambizioni e gli inattuabili progetti socio-politici. Magari però creando le condizioni favorevoli a far nascere un amore. Franco Solacchi è il granellino che finisce suo malgrado nel macchinoso congegno di Monsignor Fanelli, in combutta con Sunset e con il Professor Lagrève, coadiuvato quest’ultimo da un manipolo di guastatori decisi a tutto pur di rapire l’Oggetto che porterà pace e prosperità ad Haiti. Lui, il giovane impiegato romano, nella temperie del Ferragosto intende soltanto utilizzare le ferie per provare la sua nuova macchina fotografica digitale e fare un servizio sulla Roma bella addormentata negli umori invisibili del radon. Vorrebbe, ma gli capita di trovarsi faccia a faccia nel Museo del Celio con l’apparizione di una giovane donna dagli occhi di smeraldo, che gli apre le porte sulla dimensione dell’avventura e del mistero. Lui non sa, forse non vuole neanche resistere, e si lascia portare per mano, trafelato, inseguito, travolto, fino all’esito finale che riporta ogni cosa e persona al posto che le compete. Lo aiutano figuranti di centurie, un commissario più abile di quanto lo siano i veri, un generale ex dei Servizi di Stato, una cameriera spagnola, un ospite di Madre Teresa a San Gregorio, due well educated ma temerarie insegnanti scozzesi venute a Roma per verificare se è vero quanto dice un certo adagio, che cioè le buone ragazze vanno in paradiso e le cattive in Italia. E per finire agisce in maniera risolutiva un barbone palleggiatore. Dell’illustre figura vestita di bianco intervenuta in extremis, se ne tace ruolo e nome. È lui ad asciugare il viso della Rapita una volta riportata al suo posto in San Pietro. Il fatto che non abbia voluto disfarsi del fazzolettino usato per il gesto devoto, apre spiragli su ipotesi prodigiose.

 

Daniele Lembo


la Feltrinelli.it

Recensione:

Raccomandatissimo
Scritta il: 22 ottobre 2011

Fantastico libro, ancora più bello dell’ultimo di Di Lieto, “Mater”. Soggetto e stile sono anzi piuttosto diversi, l’autore è ovviamente molto eclettico: ugualmente abile a intrecciare una trama, in questo caso, poliziesca, tipo intrigo internazionale, così come in passato ha saputo presentare storie di fantascienza. Ma Di Lieto è anche e soprattutto un poeta: persino nella narrativa, il suo uso della lingua, la musicalità, la maestria nel variare il ritmo e il tono delle frasi, dimostra l’amore per la parola, la capacità (forse innata, sicuramente però anche temprata durante la lunga carriera di scrittore) di afferrare il verbo e modellarlo con la padronanza di un grande artigiano. Avrei potuto anche dimenticare la storia, comunque avvincente e ben costruita, e bearmi semplicemente nelle atmosfere di Roma, lasciarmi cullare dalla musica che magicamente avvolge ogni pagina, tra i colori e gli odori di un’estate romana, più veri e reali forse di quelli fisici, ormai così difficili da cogliere nella nostra Capitale tanto trasformata dall’assalto dell’era tecnologica, della barbarie commerciale. Mi è venuta voglia di passeggiare ai Fori, sul Lungotevere, riscoprire i segreti della Roma di un tempo, che sono ancora lì, se si sa veramente ascoltare, leggere tra le righe, contemplare senza lasciarsi trascinare dalla furia dei tempi moderni. Non posso non consigliare di regalare e regalarsi questo volume, un vero classico della letteratura, che merita di essere conosciuto ed apprezzato.

 

Gianni Durante