L’alluvione

Lo sapevano tutti in paese che alcuni pescatori, specie tra i più anziani, riuscivano a spezzare le trombe marine. Per arrivare a tanto, adoperavano formule magiche da recitare, faccia al tornado, portando la voce a una certa cadenza di tono, a una modulazione del timbro capace di suscitare onde e flussi in grado di rompere la tenebrosa, vorticante spirale. La quale, vera sanguisuga celeste, una volta formata risucchiava dal mare tonnellate d’acqua scaricandole ora sulla montagna, ora sulla costa e sugli abitanti.Erano queste, per la verità, semplici congetture, ipotesi deduttive, perché nessuno aveva mai assistito alla spezzatura di una tromba marina. Il motivo forse era che, quando tale liturgia avveniva, l’operatore si nascondeva in qualche anfratto tra gli scogli, all’imboccatura di una delle tante grotte che si aprivano sui fianchi delle falese, o magari sceglieva una macchia di lentischi in. prossimità del litorale. Per cui, la rottura. di una tromba marina rimaneva per i profani, vale a dire per i non pescatori, un mistero. E tutti si rassegnavano a lasciarlo tale. Non Gaetanino, però, lui non era tra questi rinunciatari. Specie quella mattina di fine ottobre.

Non pioveva da dieci mesi. A febbraio c’era stato qualche temporale, poi più nulla, neanche una goccia. Un cielo terso, un’aria asciutta, e da giugno una canicola che non si registrava a memoria d’uomo. Il fiume aveva mantenuto la sua portata fino ai primi di luglio, poi si era assottigliato, anche, perché, dai giardini, attraverso le venature dei canali, le colture avevano drenato tutta l’acqua che potevano, non bastando le cisterne piovane e i pozzi. Dalle conche residue d’acqua incavate nel greto calcinato dalla calura si pescavano con le mani anguille boccheggianti, tramortite.

A fine agosto, le zappe dei contadini affondavano in una terra privata di ogni umore, le zolle riarse si frantumavano in un polverone giallognolo. Avaro, nemico, il cielo aveva negato persino il conforto delle nuvole. Poi di colpo quella mattina, da sud, in groppa al vento africo, le prime nubi grigie, all’inizio sparpagliate, rade: certamente le staffette del grosso in arrivo.

Quando prendemmo la rotabile per andare a scuola ad Amalfi, il cielo ne era tutto ingombro.

«Oggi, una bella tromba non ce la leva nessuno» affermò speranzoso Gaetanino, indicando a me e agli altri trottatori del sapere le sfilacciature di nembi che andavano formandosi sull’orlo inferiore della nuvolaglia.

«Basta il vento giusto – enunciò ancora, saputo, il mio amico – e i filaccioni sparsi diventano una corda compatta, come lo stoppino del lume a petrolio. E allora quella fune succhia dal mare quanta acqua vuoi, e la scarica sulla terra!»

Gli brillava una strana luce negli occhi. Gaetanino era un collezionista di fenomeni rari: aveva assistito, per sua fortuna non veduto, al bagno di un lupo mannaro, poi nel giardino di suo nonno, alle Pietre Nere, era stato testimone di una danza di fuochi stregati, e ancora aveva visto un serpe mutare la pelle. Gli mancava una bella tromba marina troncata dallo scongiuro di un pescatore.

Quella mattina, insieme alle orde di cumuli, aveva pervaso il cielo una strana luce arancione tendente al sulfureo. Tutto il paesaggio ne vibrava, se ne intrideva illividendosi. Ad un certo punto cadde qualche goccia crepitando sull’asfalto. La vegetazione appariva irrigidita in una spasmodica attesa, le foglie si tendevano alla promessa di refrigerio, che però ostinatamente il cielo negava. Lungo la strada, dalla parte della montagna, i corti alberelli di corbezzolo protendevano rami carichi di drupe rosso vivo o giallo oro, oppure, se troppo mature, già incupite in un viola carico, vellutato. Si notavano cespi di mirto, con le bacche nere raccolte in grappoli, e i melograni selvatici, grondanti frutti lucidi. Il vento, soffiando a intermittenza dal mare, con violenti strattoni scuoteva tutte quelle creature assetate. Ma dopo la breve lusinga di quei rari goccioloni, piú niente.

Eppure dalla strada si offriva ai nostri occhi affascinati lo spettacolo del golfo affollato di nuvole cariche d’acqua lanciate in furiose sgroppate contro le montagne, o a scontrarsi l’una contro l’altra nella spettrale luminosità elettromagnetica. Per contrasto al tumulto che si agitava nel cielo, i! mare, si presentava stranamente piatto e calmo Ma era una stasi ambigua, piú minacciosa del carosello dei nembi. Sembrava come se il cielo premesse con tutto il peso sulla superficie marina, tesa in un grigiore plumbeo. Su tutto dominava quella luce magnetica, che col passare dei minuti si accentuava, polarizzando oscure forze, e lo scenario gradatamente volgeva a tonalità fosforiche.

A scuola il professor Codini ci fece leggere e commentare un passo del De Bello Gallico. Era l’anno dell’esame di terza media. Le solenni parole di Cesare che diceva a noi, indegni posteri, come la Gallia si dividesse in tre parti, quella mattina aleggiavano simili a uno sciame di volatili inquieti, incerti se nidificare nelle nostre menti oppure se prendere il volo sotto la minaccia di quella insinuante luminosità.

Dal finestrone della classe potevamo scorgere il porlo d’Amalfi, col molo foraneo proteso a riparare le barche all’àncora dalla marea abbacinante che premeva da ovest.

Imbarcazioni piccole e grandi parevano addossarsi le une alle altre nel tentati vo di fa re quadrato conti-o l’imminente buriana. Che però tardava a sfogarsi.

Quando uscimmo da scuola e riprendemmo strada per Minori, le masse cumuliformi ancora caracollavano per il cielo, si aggrappavano velocemente e altrettanto repentinamente si disgregavano, formando altre compagini tetre. E tutte si dirigevano a testa d’ariete contro la cerchia dei monti.

«Dove sono finiti gli uccelli?» disse a un certo punto uno della comitiva. Eravamo all’altezza del cimitero di Castiglione. Lí, normalmente, tra i carrubi, gli ulivi e la macchia selvatica, passeri, fringuelli, cince e allodole, non di rado anche migratori di grossa taglia in transito dal nord verso l’Africa, saltellavano tra i rami pigolando e frullando. Quel pomeriggio nulla, non un volo, non un cinguettio. Persino dai greppi che dirupavano a mare erano scomparsi gabbiani, poiane e procellarie.

Fu allora che notammo la prima tromba. Si formò improvvisa: uno dei filacci, fuoriuscente da un cumulo piú basso, si allungò, divenne funicolo denso, come se un’invisibile mano avesse raccolto i fili sparsi attorcendoli ad una corda. L’appendice plumbea si avvitò furiosa, serpeggiò staffilando l’aria, poi si immerse nel mare cominciando a succhiare, E via via che traeva acqua, il suo corpo imbutiforme si ingrossava, vorticando con maggiore veemenza.

«Facciamo presto» gridò Gaetanino, che pensava già al trofeo da catturare per la sua collezione di misteri, piú che ai pericoli di quel drammatico fenomeno che si svolgeva a poche centinaia di metri dalla costa.

Ci mettemmo a correre. A Marmorata vedemmo il tornado scorrere rasente la superficie marina in direzione di Maiori, sempre collegato, con il suo temibile cordone viola, all’acqua che veniva aspirata verso l’alto a velocità impressionante. Di colpo, in prossimità della Torre Normanna, il vortice si staccò impennandosi sorto la furia del vento su per i pendii dell’Annunziata. Per poco un’automobile non andò a urtare il parapetto presso l’Abbeverata dei Cavalli, poiché un guidatore si era distratto per osservare la terrificante visione. Finalmente a Torre Paradiso riuscimmo a vedere la spiaggia. Dall’alto si notava un formicolio di gente impegnata a tirare in secco le barche. L’assenza dei rumori e delle voci dovuta alla distanza rendeva quella concitazione piú irreale.

«Presto – incitava a quel punto Gaetanino, già catturato dall’atmosfera di suspense – andiamo a casa, lasciamo i libri, mangiamo qualcosa e poi corriamo alla marina. I compiti li faremo piú tardi».

Gli chiesi di fischiarmi dal cortile.

A casa era già pathos. Sintonizzata in termini panici con gli elementi, zia Peppino aveva intuito la drammaticità della situazione. Ad esseri come lei bastavano, per capire, pochi indizi colti nell’aria, annusati, avvertiti attraverso il sonar di un’anima vigile e assuefatta alle emergenze straordinarie della natura. Indossava la camicetta “buona” di taffettà abbottonata fino al collo. Tra le sue dita legnose scorrevano i grani del rosario fatti con l’ulivo del Getsemani. Al collo le pendevano un paio di scapolari come reliquie.

«Dies irae…» scandivano le sue labbra severe, tirate, ammonendo il gruppo di beghine raccolte in fretta tra il vicinato. Arrivò una comare:

«Gesù, avere visto! E che sarà mai? Mi viene in mente il ’44» riferendosi all’eruzione del Vesuvio di dieci anni prima.

Occhiate di assenso, altre levate al cielo, poi un cenno di invito da parte di zia Peppina a unirsi al coro salmodiante. Lo stesso sguardo imperioso mi obbligò, finito di pranzare, a far parte del concistoro. Mia sorella, tornata anche lei da scuola, si era messa a cercare Sciurillo, il gatto di casa. La povera bestia, riferí la zia, aveva miagolato per tutta la mattinata, marcando la schiena, drizzando il pelo di quando in quando, come se un fluido malefico l’attraversasse dalla testa alla coda.

«Eccolo qua! – esclamò soddisfatta mia sorella dopo lunghe ricerche – si era infilato nella fornacella grande… guardatelo, è pieno di cenere…» e sollevò il gatto tenendolo per la collottola perché tutti lo vedessero. Anche qui occhiate di comprensione, di considerazione.

A salvarmi venne il fischio di Gaetanino:

«Fijiù…fi, firulì…».

«Và, và – sibilò a denti stretti la zia, interrompendo un’Ave – ma torna presto. Qui è la fine del mondo!».

L’ultima frase era un po’ scontata. Faceva parte del corredo di locuzioni a effetto tipiche del linguaggio delle nostre parti. Ma in quel caso, per la piega che presero poi gli eventi, mai presagio fu piú azzeccato.

 

Non meglio di Sciurillo stava il cane lupo di Gaetanino, Rex. Il mio amico se l’era portato dietro legato ad una robusta cordicella.

«Che ha il tuo cane?».

«Mah, a sentire quelli di casa è tutta la mattina che si lamenta, gratta per terra e si rifiuta di mangiare. Al magazzino dava fastidio, e cosí mio padre mi ha chiesto di portarlo a spasso finch non si calma».

Gli riferii che anche il nostro gatto si era comportato stranamente:

«Figurati, si è infilato nella fornacella. Da rosso che era, è diventato grigio!».

Passammo sul ponticello a schiena d’asino che univa il mio caseggiato con la via che costeggiava il fiume.

«Guarda – indicò Gaetanino – guarda l’acqua!».

Il flusso, da cristallino come appariva normalmente, si era intorbidito. Un velo di fanghiglia marrone correva con l’acqua, si depositava ai margini della correntía, imbrattava le sponde. Nell’aria si avvertiva il tipico sentore del limo che annunciava la piena.

« Vedrai – diceva eccitato e speranzoso il mio amico – col fiuto di Rex, se qualcuno si nasconde per tagliare la tromba, non scappa. Lui lo trova subito!».

Invece, quando fummo sulla spiaggia, il cane cominciò a uggiolare atterrito e si accucciò con il muso nella sabbia.

Gaetanino, di fronte allo spettacolo del mare plumbeo e del cielo sconvolto, nel riverbero abbacinante di quella insolita luce, si era azzittito. Poi calmò con qualche parola affettuosa l’animale e ci muovemmo insieme agli altri su e giù per la marina, lividi come fantasmi. I pescatori, vecchi e giovani, erano tutti lì, le mani in tasca, le facce chiuse. Non servivano gli scongiuri contro una simile fattura.

Imbruniva quando cominciò a piovere. Ci riparammo sotto l’arco del crocefisso del ponte. Non trascorse neppure mezz’ora che uno strato d’acqua marrone prese a scorrere silenzioso lungo la pavimentazione. Da molte parti si levò all’unisono un grido:

«’A sciumara!».

Riguadagnammo la via di casa sotto il diluvio, e al ponticello ci separammo. Il livello dell’acqua già lambiva la base dell’arco. Lo sciabordío familiare, conciliante e sereno, si tramutava rapidamente in ruggito. L’acqua vorticava, aggrediva gli argini.

Qualcuno dalle finestre ci incitava a metterci in salvo. Mentre salutavo con un cenno della mano Gaetanino che correva verso la porta di casa sua, tirandosi dietro il riluttante Rex, mi venne in mente il De Bello Gallico. Avremmo dovuto tradurne dieci righe per l’indomani. Stavo per ricordarglielo, poi lo scenario intorno mi fece apparire tutto relativo, persino l’austera cadenza della prosa di Cesare. A ciascuno il suo Rubicone, e io mi affrettai a guadare il mio.

Da quel momento tutto precipitò nell’incubo. Mancò la luce, riportando il paese a un buio primordiale. Intanto il fiume rombava, trasportando macigni grossi come case, alberi sradicati dai pendii quasi fossero arbusti. La natura, nella sua furia, riprendeva agli uomini quello che per anni aveva munificamente elargito con la linfa, l’energia, il ristoro dell’acqua.

Quella notte, nell’oscurità totale, scivolammo verso la condizione umana primitiva, perdendo ogni misura del tempo, ogni riferimento esterno. Fuori tornava l’ignoto, montava, ci stringeva da ogni parte. E noi eravamo in balía di quel nulla, vulnerabili a ogni offesa e pericolo.

Nella camera da letto zia Peppina aveva allestito un altarino sul comò. I santi domestici, estratti dallo scarabattolo a muro, liberati dalle campane di vetro, disposti in gruppo serrato sulla tovaglietta di pizzo, vigilavano al chiarore oscillante delle candele.

La terra tremava, i muri faticavano a reggere l’urto dell’acqua, ormai padrona delle strade. Ci augurammo che gli abitanti dei bassi avessero avuto il tempo di portarsi ai piani alti, magari uscendo nei giardini sul retro degli edifici e da qui, su per i terrazzamenti, verso le alture.

Il turbine della fiumana esalava sempre piú dappresso il suo alito limaccioso. Alla luce di una lanterna controllammo il livello dell’acqua: dal bordo del davanzale era possibile sfiorarla con la mano. Ci preparammo allora all’eventualità di salire al piano superiore, o come soluzione estrema di raggiungere il terrazzo insieme alle altre famiglie del caseggiato. Alle due del mattino uno schianto superò il frastuono della piena, sovrastò il boato dei tuoni. Ignorandone la causa, credemmo fosse la fine, come la zia aveva preconizzato nel pomeriggio. Poi si seppe che dal cielo una valanga d’acqua si era rovesciata tutt’insieme a caratta contro le montagne, scarnificandole, spogliandole di ogni vegetazione e opera umana. Ma questo lo scoprimmo la mattina dopo quando, terminato il cataclisma, affacciandoci dall’arca che aveva retto al diluvio, scoprimmo un mondo devastato dall’inondazione e sommerso dal fango. Era questo infatti il dato piú terribile: il fango. Tutta la vallata ne era letteralmente ricoperta. Gli edifici, le strade, i giardini ne risultavano soffocati. E da quel magma freddo, che faceva da sudario e lapide al nostro mondo minimale sepolto, emanava un tanfo di putredine, di paludose degradazioni. In quei frangenti ossessionava la mente di tutti noi la lugubre analogia del presente disastro con quello che in una notte di duemila anni prima aveva seppellito nello stesso luogo la villa imperiale romana. Per cercare di recuperare dal fango qualche brandello del mondo cancellato dalla fiumara, la gente lavorava forsennatamente, scavando, spalando. Una frenesia spesa non tanto per la salvezza dei beni materiali, quanto del corredo sentimentale, ad memoriam.

Soprattutto perché la mota tendeva a rassodarsi, fino a pietrificarsi. Quando tre giorni dopo il presidente Einaudi venne a rendere omaggio al “paradiso in terra distrutto dal cataclisma”, come dicevano i giornali, i minoresi erano riusciti a tracciare, in quella melma rappresa, un solco tanto profondo da ritrovare la pavimentazione stradale.

Quella precaria trincea servì da guida d’onore: Einaudi vi procedette con cautela, seguíto dalla scorta e dalle autorità. Un silenzio terribile gravava sul paese e sulla folla. Al Mulino del Sordo il corteo si bloccò. Il sindaco, che era accanto al presidente, allargò le braccia e scuotendo la testa piú volte esclamò:

«Guardi, Eccellenza, guardi quanta rovina!». Piangeva.

Si replicavano in quella scena antichi stereotipi: il Sud disastrato, il Nord soccorrevole. Tuttavia quel giorno una cupa solennità pervadeva uomini e cose, rendendo le abusate immagini degne di una tragedia greca.

Il mare veniva tenuto in gran sospetto. Del resto, aveva fagocitato, vorace, tutto quanto il fiume era riuscito a rapinare alla terra: averi, case, masserizie, attrezzi e soprattutto vite umane. A Minori tre, altrove tante, tutte preziose, irripetibili, straziate.

Lentamente il leviatano restituiva gli avanzi della sua ingordigia. I relitti sbarcati dalla risacca ingombravano gli arenili, urlavano scempio e oltraggio sotto un sole di nuovo radioso, sfacciatamente trionfante. La diffidenza tra gli uomini e gli elementi stentava a dissolversi. Sarebbero mai piú riusciti a riconciliarsi?

Poi da Vietri giunse la notizia che il mare – ritenuto insieme al fiume complice primario della catastrofe, avendo fornito sotto forma d’acqua l’arma per realizzarla – aveva trasportato su calmi flutti per due giorni, quasi ninnandolo, un neonato dentro una culla. Nell’abitato di Molina il fiume aveva sollevato la zana trascinandola via attraverso la finestra di una casa allagata, e dopo rapidissimi sballottamenti l’aveva affidata alle onde marine. Le lance della Capitaneria avevano intercettato lo strano naviglio al largo del golfo. Il bambino neanche piangeva. Sgambettava, e con gli occhi spalancati guardava tranquillo il cielo ritornato color turchese.

Fu quello il segnale che la pace era fatta. Le barche scesero di nuovo in mare. La vita riprese.

 

Da: Speciale «Ecostiera» 1954-1994 A quarant’anni dall’alluvione, Ed. Ecostiera, Minori, Salerno.