Nel nome della Madre

Nel nome della Madre

Ed. Il Calamaio, Roma – 2011

La bambolina di avorio lo guardava dalla vetrina, disarticolata nella sua anatomia di pupazzo, il petto annerito dai troppi secoli trascorsi nell’umidore oscuro della tomba. Erano soli, lui vivo di una giovinezza incerta, piena di dubbi, lei certa della sua immobilità, e forse per quella assenza di ogni aspettativa, di lui piú serena. Quella bambola inerte lo fissava con la vacuità delle pupille che un abile artigiano di un remoto passato aveva scolpito nell’avorio. Erano soli, in quella saletta appartata, con il vento che a tratti s’insinuava per effetto della corrente e per brevi attimi portava l’umore dell’estate. Aveva letto di archeologi e spiritualisti che si erano fatti rinchiudere nella camera sepolcrale della piramide di Cheope o di altre tombe egizie per trascorrervi una notte da soli. Molti ne erano usciti stravolti, ma non per l’invasione di presenze malefiche e di fantasmi inquieti. Franco era certo che quelle persone in realtà avevano sfiorato per un attimo l’eternità e non ne avevano retto il peso. Ora, Crepereia dalla bacheca polverosa sembrava volergli parlare per svelargli il suo segreto del mondo oltre.«Do you mind?» la voce appena sussurrata gli giunse da dietro le spalle. Trasalí. Poi la ragazza gli si mise affianco e lui la guardò. La bambola si era trasferita dalla vetrina nella realtà, e ora ritta accanto a lui gli puntava addosso due grandi occhi chiari. La bocca che aveva pronunciato la frase in inglese gli sorrideva. Si aprí di nuovo per domandare: «What is this?…».Lui si spostò leggermente di lato, per permettere alla ragazza di vedere meglio l’interno della vetrina. La testa di lei, dagli strani capelli di un biondo chiarissimo, si chinò per leggere il cartiglio con le indicazioni.

Franco era incantato. Provò a sorridere a sua volta e si rivolse a lei, in un inglese fluente, per spiegarle che la bambola era appartenuta a una fanciulla di nome Crepereia.

«Oh, you speak English!» esclamò la ragazza. E lo gratificò di un altro sorriso, mentre gli occhi di un celeste tenue, sgranandosi, trascolorarono in fondo alle pupille di una luce magnetica che lo catturò.

Un uomo di colore, alto e nerboruto, si era stagliato nel vano della porta e apostrofò la ragazza in tono energico. Lei indicò la bambola nella vetrina. Il nero si avvicinò, diede un’occhiata rapida, alzò le spalle muscolose con gesto di noncuranza, poi la prese per il braccio e risoluto, ma con delicatezza, la spinse via. Lei accennò a resistere, guardò Franco con simpatia. Disse: «I am sorry… I have to go. It has been a pleasure».

Franco avrebbe voluto rispondere che anche per lui era stato un piacere… ma non seppe far altro che muovere le labbra, tendere il braccio verso di lei che spariva oltre il vano della porta dietro al nero forzuto che continuava a parlarle con un tono di apprensione, mentre si allontanavano tra le vetrine e i reperti della sala attigua, diretti verso il cortile esterno.

Franco li seguí. Una volta fuori, vide la ragazza circondata da un gruppo misto di neri. Uno di loro, che dava l’idea di essere il capo della strana compagine, era anziano e raffinato nella figura e nei modi. Alto, magro, stempiato e grigio, meno scuro degli altri nella pelle. Dava ordini ed aveva una certa autorità sull’insolita compagnia. Franco però badava poco al resto dell’accolita che si agitava vociando tra lapidi e colonne riverse. Aveva occhi solo per lei, per la candida ed esile ragazza che per un attimo era stata accanto a lui facendolo sentire bene come mai era stato prima. Come appariva in contrasto, lei, tra tutti gli altri!

L’uomo anziano e autorevole chiamò la ragazza: «Are you ready, Antinea?».

Ecco, come si chiamava: Antinea! Ma poi il fotografo, un nero piccolo e scattante, che si era preparato per le riprese, la chiamò, sollecitandola a mettersi in posa accanto a una pietra scura a forma di cubo. Un altro del gruppo le mise addosso una specie di mantello lilla pallido. Il fotografo diede altre istruzioni alla ragazza, facendole assumere la positura che di volta in volta voleva ottenere. Scattò diverse foto, alcune in controluce. Tutte le istantanee riprendevano la giovane accanto al cubo di marmo nero. Poi l’operatore passò a una videocamera e fece una ripresa di un paio di minuti. L’uomo autorevole, che chiamavano Dominique, quando ebbero finito si avvicinò alla ragazza e dovette farle dei complimenti, perché lei lo gratificò di un ampio sorriso, che gli fece chinare la testa con un gesto che appariva di profonda venerazione.

Franco si domandava che rapporto potesse esserci fra i due, che ci facessero tutti quei neri nel piazzale di un museo per nulla frequentato, e che senso avesse quella pietra nera a forma di cubo in tutto quel gioco di riprese.

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